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Home Cronaca

Infermieri e medici Veneziani uniti: stop alla violenza contro gli operatori sanitari

Gli ospedali erano luoghi rispettati, oggi sono posti in cui la sofferenza si trasforma in rabbia

redazione redazione
11/03/2023
in Cronaca, In Primo Piano, Notizie, Veneto, Venezia
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Ben 85 nel 2022 gli episodi segnalati in Italia di violenza ai danni di operatori sanitari, contro i 60 del 2021 (dati Ministero della Salute). E, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, tra l’8 e il 38% di chi lavora a protezione della salute di tutti subisce violenza fisica a un certo punto della propria carriera: molti di più sono minacciati o esposti ad aggressioni verbali da parte di pazienti e familiari.
Episodi di inciviltà e aggressività in aumento e probabilmente sottostimati che non vanno sottovalutati e che, in vista della seconda Giornata nazionale di educazione e prevenzione contro la violenza nei confronti degli operatori sanitari e sociosanitari, che si celebra domani 12 marzo 2023, spingono infermieri e medici veneziani a unirsi ancora una volta per lanciare un forte appello ai cittadini: «Basta alle violenze in corsia e negli ambulatori, rispettate chi si prende cura di voi, altrimenti poi la vita chi ve la salva?».

«Il nostro territorio purtroppo – sottolinea il presidente dell’OMCeO veneziano e vicepresidente FNOMCeO Giovanni Leoni – non è immune da questo fenomeno: pensando solo all’anno scorso ricordiamo i medici di famiglia di Cavallino Treporti e di Noventa di Piave insultati nei loro ambulatori, la dottoressa dello IOV di Padova ferita con un coltello, l’infermiera incinta presa a pugni da un paziente in un ambulatorio di Mira, l’aggressione e i danni in pediatra all’Angelo, le intimidazioni nei centri vaccinali… Sono episodi inaccettabili: questa violenza va fermata ad ogni costo».

«Le aggressioni fisiche o verbali sul posto di lavoro – aggiunge Marina Bottacin, presidente dell’Ordine Infermieri di Venezia (OPI) – colpiscono in media in un anno un terzo degli infermieri, la categoria professionale più numerosa in assoluto del Servizio sanitario nazionale e della sanità in generale. Si tratta del 33%, circa 130mila casi, e se si tenesse conto conto del “sommerso” non denunciato all’INAIL, il dato potrebbe raddoppiare. Il 75% delle aggressioni riguarda donne. Lavorare poi come infermiere nell’area dell’emergenza e urgenza aumenta di oltre due volte la probabilità di subire violenza rispetto a lavorare in area medica».

Un fenomeno che, purtroppo, neanche la pandemia, con la sua retorica degli eroi, ha contribuito a limitare. Negli ultimi anni, però, sono state messe in campo azioni di contrasto a livello istituzionale, a partire dal neonato Osservatorio nazionale sulla sicurezza degli esercenti le professioni sanitarie e sociosanitarie che, finalmente, a gennaio si è insediato e ha avviato i suoi lavori per un monitoraggio puntuale del fenomeno.

E poi ancora la legge 113 del 2020, fortemente voluta dalla FNOMCeO e approvata all’unanimità dal Parlamento, «che – prosegue il presidente Leoni – inasprisce le pene per chi aggredisce medici e infermieri e introduce la procedibilità d’ufficio in caso di violenza in corsia. La legge, però, deve essere applicata con rigore in ogni singolo caso».

«Le conseguenze materiali per i professionisti delle aggressioni fisiche – continua la presidente Bottacin – vanno nel 32% dei casi da escoriazioni e abrasioni a fratture e lesioni dei nervi periferici, fino anche, seppure in pochi casi, all’invalidità. La principale conseguenza psicologica è il burnout che colpisce il 10,8% degli infermieri che hanno subito violenza. I dati sono preoccupanti e la situazione è ancora più drammatica se teniamo conto che questo sta incidendo pesantemente anche sul fenomeno dell’abbandono della professione: in Italia il 36% degli infermieri dichiara di voler lasciare il luogo di lavoro entro 12 mesi; di questi il 33% dichiara di voler lasciare la professione».

«Un tempo – concludono i presidenti Bottacin e Leoni – gli ospedali erano luoghi rispettati, oggi sono posti in cui la sofferenza si trasforma in rabbia, dove si pretende tutto, subito e ad ogni costo. Luoghi sempre meno sicuri, in cui un diverbio può sfociare in una tragedia. Bisogna, allora, fare un cambio di passo culturale: recuperare la dimensione umana nell’assistenza e il calore della solidarietà che è alla base della relazione di cura. Serve rispetto per chi combatte ogni giorno contro le malattie e serve anche più sorveglianza, con l’impiego dei tanti sistemi di sicurezza altamente tecnologici oggi a nostra disposizione. Solo così si potrà restituire serenità a chi esercita queste delicate professioni di aiuto e si spende ogni giorno con professionalità, impegno e sacrificio per la tutela della salute di tutti».

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